Pandemonio GDR - Urban Fantasy -

Posts written by Kadan •

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    Il tocco inaspettato delle dita di Alphard la colse di sorpresa. Non perché pretendesse di essere l’unica a potersi permettere qualcosa del genere, piuttosto per il motivo che l’aveva fermata dal cercare un qualsiasi contatto fisico con lei nei mesi precedenti: li aveva sempre schivati. Il fatto che quella volta non solo non avesse fatto storie per il suo goffo tentativo di trovare un po’ di pace mentale, ma avesse addirittura ricambiato era sicuramente un passo avanti. Un po’ troppo avanti, per i ritmi ai quali si era abituata. Alle sue parole rilassò appena le spalle e fece un lieve cenno col capo, non sentendosi in grado di continuare la conversazione e non credendo neanche che ci fosse bisogno di dire altro, in fondo.
    Riuscì a non farsi distrarre, relegando la strana sensazione che quel tocco le regalava ad un angolo piccolissimo della sua mente, abbastanza piccolo forse da non essere notato da Alphard stessa. Riuscì a curare la sua mano senza interruzioni o ostacoli di sorta, liberando il palmo dalla sua stretta forse con un secondo o due di ritardo.
    Passò al braccio poco dopo. Alphard le fece il piacere di avvicinare l’arto a lei, e Irène scivolò più vicina sul divano proprio per averlo completamente a portata di cure. Per una persona normale, quella sarebbe stata una ferita grave. L’osso, nonostante la rigenerazione della licantropa, era ancora parzialmente visibile, eppure Alphard sembrava non esserne assolutamente afflitta. Per evitare che si richiudesse in modo superficiale, senza le adeguate cure, la clericale si mise subito all’opera. Una luce calda si posò sul braccio della siriana, iniziando a rigenerare i tessuti nell’ordine corretto, e con tanta precisione quanto bastava a non lasciare segni a lavoro completato. Per quella ferita ci avrebbe messo un po’ più di tempo, date le dimensioni.
    Rimase in silenzio per qualche secondo, assorta nelle sue cure nonostante avesse sentito ciò che le aveva detto Alphard. Rispose un po’ in ritardo, ma lo fece.
    – Mh… –, mugugnò, non avendo buone argomentazioni per ribattere. – Non lasciamo le armi. Qualcuno potrebbe farsi male. –, convenne, un buon compromesso per il suo animo stanco. Se non avesse già sprecato gran parte delle sue energie avrebbe reso quel posto nuovamente splendente, ma in quel frangente avrebbe dovuto sopprimere i suoi urgenti bisogni.
    Evidentemente Alphard non era dello stesso avviso. Aveva già avvertito il suo sguardo su di lei anche senza sondare la sua mente, semplicemente per intuito e per via delle occhiate rapide che, di tanto in tanto, Irène le lanciava per controllarla. Non fu inizialmente abbastanza per distrarla, quindi le cure arrivarono quasi al termine senza problemi; quando però Alphard ritenne opportuno e del tutto normale spalancare le porte della sua mente per condividere con lei ciò che pensava del suo volto Irène sgranò gli occhi, presa alla sprovvista. La luce proveniente dai suoi palmi tremolò, ma con un ultimo sforzo riuscì a richiudere del tutto il braccio della licantropa prima di spegnersi. Ritirò in fretta le mani, stringendole prima a pugno come sulla difensiva, e distolse lo sguardo per evitare di proposito quello dell’altra, fin troppo attento. Si alzò di scatto, emettendo il suo verdetto.
    –Possiamo andare. –, disse, dissimulando un tono calmo e sicuro, e cercando di non far notare ad Alphard quanto poco corrispondesse al suo attuale stato d’animo. Si mosse verso alcune delle armi che erano rimaste in giro per il salottino, facendo attenzione a darle le spalle prima di portare una mano pallida e gelida al volto inaspettatamente caldo. Era stanca, sia fisicamente che mentalmente, e le sue difese erano particolarmente basse. Le sue reazioni più evidenti e incontrollate. Alphard non poteva scegliere motivo peggiore per farle dei complimenti… o migliore, a seconda dei punti di vista.
  2. .

    Nella sua auto-commiserazione fu quantomeno grata ad Alphard per la sua discrezione. Le lasciò il tempo che le serviva, permettendole di calmarsi anche solo in parte per svolgere i suoi doveri senza distrazioni. Quando le si sedette accanto, Irène era pronta – più o meno – a curarle tutto ciò che le avesse messo davanti. Ruotò lievemente verso di lei, allungando le mani.
    Ciò che non si sarebbe aspettata, e che non avrebbe voluto sentire in quel momento, era una ramanzina. Aveva appena cinto il polso della siriana con le dita della mano sinistra, per rotearlo e osservare meglio la ferita sul palmo da più direzioni, quando Alphard iniziò a parlare. Il biasimo nella sua voce le fece tremare un attimo la mano, prima che la clericale riuscisse a contenersi. Si sforzò di lasciare il suo discorso in sottofondo per dedicarsi alle cure, emanando di volta in volta un alone di luce azzurrina con la destra che però non riusciva a stabilizzarsi abbastanza da essere in alcun modo utile. Il suo stesso corpo non le stava permettendo di ignorare la verità dietro le parole di Alphard.
    Alla fine si arrese, anche solo per quel minuscolo frangente. Lasciò cadere la mano in grembo, poi la spostò sul palmo di Alphard. Se la donna non l’avesse ritirata, avrebbe iniziato a tastare gli angoli della ferita con le dita. Se non poteva usare le sue cure, al momento, almeno si sarebbe assicurata dell’effettiva gravità del buco. Suonava bene, come giustificazione per non interrompere il contatto.
    Rimase ad ascoltare in silenzio, e a capo chino. Non era sicura di poter sorreggere lo sguardo duro e fiero dell’altra. Qualunque cosa dicesse, verità o menzogna, lo faceva con massima determinazione. In quello neanche Irène riusciva a batterla. Solitamente la considerava una sfida, uno scoglio da superare, un obiettivo da raggiungere. Lei non era da meno e l’avrebbe dimostrato. Ma in quel momento non si sentiva affatto eguale a lei. Provava una vergogna tale da non potere neanche lontanamente considerarsi sua pari. E insieme a quella, una rabbia immotivata.
    Come se ne avesse il diritto.
    – Non accadrà più. –, affermò, immettendo in quelle tre parole più confidenza di quanta ne avesse in quel momento. Non sarebbe comunque venuta meno a quella promessa. Qualunque cosa potesse accadere in futuro, non l’avrebbe più lasciata combattere da sola.
    Nonostante fosse ben lontana dalla pace mentale che delle cure precise avrebbero richiesto, Irène raddrizzò il busto e si schiarì nuovamente la voce. La mano destra venne avvolta da una fioca luce calda, e l’altra mano tornò al polso così com’era giusto che fosse. Iniziò a curarla in silenzio, calmando il proprio respiro. Quando l’orgoglio, o l’ammirazione quasi, di Alphard per lei la raggiunse, Irène ignorò e represse il seme del compiacimento che rischiava di sbocciare da un momento all’altro. Non era il momento, e non poteva permetterselo dopo la serata disastrosa alla quale aveva contribuito.
    Quando la mano fu quasi del tutto rimarginata, la ragazza si prese una lieve pausa, lasciando il polso della siriana e iniziando ad adocchiare dalla distanza l’altro braccio. Si spinse in avanti, portando finalmente lo sguardo sul volto di Alphard e facendole cenno di venirle incontro.
    – Avvicinala un po’. –, le chiese, con voce molto più morbida di prima. Era stanca, e in un certo senso malleabile per via dello stato d’animo non eccellente. Niente più parole dure, o ordini secchi quella sera. Un vero miglioramento, eh.
    Non si era ancora resa conto di non comportarsi in quel modo già da un po’.
    – Dovremmo ripulire, prima di andarcene. –, aggiunse poi, distrattamente. Lei intendeva chiaramente nel senso letterale, dato che lo scontro aveva lasciato in giro segni di bruciature e macchie di sangue a perdita d’occhio. Ma, prevedendo quanto si sarebbe stancata a fine cure, per non parlare delle ovvie proteste di Alphard, si sarebbe accontentata di sequestrare le armi per evitare che andassero in mani sbagliate.

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    Il mezzo angelo volò via come una bambola di pezza. Era abbastanza sicura di non averlo colpito così forte da ucciderlo, ma sul momento il dubbio le venne comunque. Sobbalzò e si voltò verso Alphard, che aveva reagito a quello scenario con gioia incontenibile e un eccezionale senso di superiorità che in quel momento a Irène diede solo la nausea. Non era felice di aver sovrastato quella creatura. Colpirlo era l’unica cosa che avrebbe voluto fare, e che non avrebbe fatto se la situazione non l’avesse costretta ad agire. Sul momento si era fatta prendere dall’impazienza e da qualcosa di simile all’ira, che si dissipò non appena vide lo sguardo terrorizzato dell’altro mezzo angelo all’idea di poter aver perso il gemello.
    La clericale sbarrò gli occhi e allungò una mano nella loro direzione, facendo un passo in avanti. Voleva rassicurarlo, e stupidamente voleva scusarsi. Non era sicuramente l’atteggiamento migliore da assumere di fronte a creature che fino a un attimo fa volevano la loro vita, ma Irène non aveva mai detto di essere adatta a quel tipo di cose. A quel punto dubitava che vi si sarebbe mai abituata.
    Le parole di un’Alphard umana la anticiparono. Minacciarono un’ultima volta la creatura inerme e spaventata, dandole l’urgenza necessaria per fuggire insieme al fratello. Con ancora le sue scuse bloccate in gola e lo stomaco chiuso in una morsa, Irène lasciò che la sagoma di Alphard la nascondesse alla vista dei due fratelli finché quelli non uscirono dalla stanza. Indugiò con lo sguardo in direzione della porta, richiamata all’attenzione dalle parole viscide dell’oscuro che si erano tanto impegnate a proteggere fino a qualche attimo prima. Quello che tecnicamente avrebbe dovuto essere un complimento suonò come un’infamia alle sue orecchie, e Irène per un importantissimo secondo non ci vide più. Una sfera di Ki puro si diresse verso la creatura, sfiorandogli l’orecchio prima di infrangersi sul muro dietro di lui. Irène non disse una parola al riguardo, limitandosi successivamente ad allungare una mano verso l’oggetto che Alphard non poteva prendere per via delle ferite. Infilò la lettera nella tasca del cappotto, limitandosi a fissare la creatura con fuoco gelido negli occhi, almeno finché anche lui non sparì alla sua vista e lei poté cadere sul primo divano disponibile. Si curvò in avanti e portò il volto alle mani, sospirando a lungo contro i palmi affiancati. Cosa stava diventando? Aveva attaccato delle creature angeliche, e aveva minacciato chi doveva difendere. In cosa la stava trasformando quella città?
    – Non abbastanza. –, mormorò in direzione di Alphard, con voce ovattata per via delle mani sul viso. Non disse altro per un po’, finché non tirò su il capo e si voltò verso la licantropa. La scrutò con volto pallido e stremato, gli occhi arrossati che scorrevano sul suo corpo per farsi una prima idea delle ferite. Infine si raddrizzò, schiarendosi la voce.
    – Vieni qui. –, le chiese, indicandole con un tocco della mano sinistra lo spazio accanto a lei. I proprietari del locale non sembravano volersi affrettare a farle uscire da lì, quindi tanto valeva approfittare dei divani comodi per iniziare le cure della siriana.

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    Eccone un altro sconosciutissimo :shifty: Zio Jack, zio Jack, masterami una storia (?)
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    Toh, una persona sconosciutissima :shifty: Benvenuto!
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    Nonostante la determinazione e la sicurezza infuse nelle parole di Irène, i due mezzi angeli ritenevano di aver fin troppo vantaggio su di loro per anche solo pensare di ritirarsi. In fondo erano due contro una, e quest’ultima era già ferita per via di un fendente ben mirato. Un fendente che Irène non aveva potuto risparmiarle, perché persa nei suoi pensieri, in lotta in contemporanea con la propria voglia di difendersi, di difendere Alphard, e l’imposizione della sua fede.
    La Benedizione fece ben poco, e inizialmente neanche la licantropa ne fu entusiasta. Almeno così le parse a giudicare dal suo verso infastidito, forse pure di dolore. Che ne fosse in qualche modo ‘allergica’ come un qualunque notturno? Irène ne dubitava, ma in quel momento preferì non soffermarsi su quel particolare. Se anche le stesse dando fastidio, non si trattava di qualcosa di eccessivo. Avrebbe potuto sopportare. In quel momento la clericale non poteva fare altro… ne fu sicura, almeno finché la coppia di fratelli non riprese a danzare. La ragazza si accorse con orrore che entrambi si stavano concentrando su di lei, bypassando le difese di Alphard con una certa facilità data la superiorità numerica e chissà che altro bonus dato dal sangue semi-divino.
    – Al! –, si ritrovò ad esclamare, e nonostante si trattasse di una sola sillaba, la voce si spezzò per bene a metà. Non aveva paura, almeno non credeva di averne, ma la sua preoccupazione era quasi palpabile nell’aria, già densa e soffocante di suo. Temeva che Alphard avrebbe di nuovo intercettato il proiettile con tutto il suo corpo, come era stata fin troppo abituata a fare in quei mesi: non aveva pensato ad altro, quando aveva sentito lo sparo e visto la canna della pistola puntare al suo volto.
    Quando la vide bloccare il pezzo di piombo con una sola mano, per un attimo pensò di potersi concedere un sospiro di sollievo, per poi ripensarci subito dopo. Il fratello non aveva perso tempo e, con una finta, aveva superato l’ostacolo posto da Alphard e si era diretto proprio contro di lei, contro il suo collo, con la lama ben affilata della sua spada.
    In quel momento sì, che ebbe paura. L’impotenza che le aveva rallentato, a volte bloccato i movimenti fino a quel momento l’avrebbe portata alla tomba? Era davvero disposta a sacrificare la sua vita e quella di Alphard per del sangue divino corrotto? Era quello ciò che il suo Dio voleva per lei?
    Irène spinse malamente via il demone con un braccio, giusto in tempo per andare incontro alla lama. Il fendente della creatura non raggiunse la sua pelle, non arrivò neanche a sfiorarla, perché un’improvvisa onda d’urto la respinse con forza. Il suo Ki si infranse contro la lama e viaggiò fino a chi la brandiva, unendo difesa e offesa in un singolo, possente colpo. L’intero corpo di Irène, sotto i vestiti, aveva preso a risplendere di azzurrino, in maniera non dissimile a quando usava la sua magia contro Alphard, per rimetterla in riga; esattamente come in quei casi, non era letale, né tantomeno equivaleva al massimo della sua forza magica. Era un mero avvertimento, probabilmente l’ultimo.
    Irène rimase in piedi, pugni stretti e occhi rivolti agli avversari, senza neanche più provare a nascondere la sua insofferenza: glielo si leggeva chiaramente nell’espressione dura come il marmo, nella mascella serrata e tra le rughe della fronte aggrottata. Aveva perso la pazienza.


    Irène

    Punti vita: 96
    Punti difesa: 43-9=34

    Evita/respinge il colpo di Michelino con il proprio potere KI, colpendolo poi con esso
    Potere KI (non letale)
    Danno: 49
    Punti difesa necessari a schivare: 18
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    Il messaggio che era arrivato a Irène quella mattina non sembrava presagire nulla di buono. Ci aveva messo un po’ a riconoscere il mittente, nonostante il numero fosse memorizzato: i numerosi nomi con i quali si era presentata la persona in questione le avevano dato filo da torcere per qualche secondo di troppo. Charlotte, Shell, chissà che altra identità si celava dietro il sorriso solare e gli occhi fin troppo vispi della donna. La clericale non aveva certamente un bel ricordo della giornata nella quale si erano conosciute, tra incidenti inscenati e sparatorie nel bel mezzo di un parcheggio abbandonato. Non si era fidata per un attimo delle parole della donna, eppure l’aveva aiutata. Non era riuscita ad ignorarla – e il fatto di essere diventata un bersaglio per i suoi ‘nemici’ era solo una parte dei motivi per i quali non aveva lasciato il parcheggio in quattro e quattr’otto insieme a Kate.
    Era successa la stessa cosa qualche ora prima. Le parole e le emoticon sullo schermo del suo cellulare di vecchia data – molte delle ultime semplicemente dei blocchi scuri, perché non supportate dall’apparecchio – formavano un’innocente, solitamente ben accolta richiesta: fare un giro a Neolock, guardare le vetrine, comprare qualcosa. Nulla di strano, se non fosse per il fatto che proveniva da una persona pressoché sconosciuta e, a giudicare dalla sua prima impressione, anche fin troppo incline ad attirare guai.
    Chiunque a quel punto avrebbe detto di no. Eppure, per una volta, la curiosità di Irène prese il sopravvento, insieme a una certa nostalgia per un’attività normale come quella. Non mancava anche una piccola dose di arroganza, che l’aveva spinta a decidere di uscire da sola nonostante le proteste veementi di Alphard: aveva invitato lei, non anche la licantropa, nonostante ultimamente contassero quasi come unico pacco. Prendi una, sopporti anche l’altra… e viceversa.
    Nel primo pomeriggio, dopo aver pranzato, Irène uscì di casa e si diresse nel quartiere adiacente a Sunset Boulevard, sicuramente il più moderno nella parte vecchia della città. L’influenza della ‘city’ si avvertiva anche nell’aria, appena più pulita e chiara che nel resto del sud. I palazzi erano più alti, più nuovi, più ricchi, e la stessa cosa valeva per le persone: abituata a girare per i Boulevard e per i quartieri adiacenti, Irène fece fatica ad abituarsi al cambiamento. Cercò di non prestare attenzione agli sguardi che la sua sola presenza, anche se in misura minore, attirò: strinse il colletto della giacca con una mano, avanzando a schiena dritta e petto in fuori, capelli mossi dal vento solo finché glielo permetteva la bassa coda nella quale li aveva legati. Il sole per una volta aveva fatto capolino oltre le spesse nubi, quanto bastava per costringere Irène a ricoprirsi di crema solare prima di uscire: per via di ciò emanava un lieve profumo di mare e salsedine, nonostante non vedesse l’oceano da settimane. Il resto del suo corpo era più o meno coperto, più per abitudine che per effettiva necessità: sotto la giacca, legata in vita e lunga fino quasi alle ginocchia, indossava un maglione del quale si intravedeva giusto il collo rotondo e bordeaux, che faceva da base al colletto di una camicia candida che faceva da strato ulteriore. Non indossava gonne, preferendo un paio di pantaloni scuri, dal taglio neutrale, e concludendo il tutto con un paio di mocassini con lacci dello stesso colore. Sicuramente non si era agghindata a festa, pur mantenendo una certa decenza nel vestire.
    Dopo aver trovato il luogo dell’appuntamento, ovvero una panchina di fronte alla grande vetrina di un negozio per lei sconosciuto, ma evidentemente popolare lì in Australia, la giovane si sedette e accavallò le gambe, accompagnando il movimento irregolare della stoffa della giacca con una mano: non voleva certo far sapere al mondo di avere un pugnale agganciato alla cinta.
  8. .
    Per un attimo, scattando in avanti per acciuffare il demone che doveva proteggere, le parve di percepire chiaramente il sonoro rimprovero di Alphard. Non ebbe modo né il tempo di confermarlo, presa com’era dalla sua ‘missione’, ma la sensazione le si insinuò nella mente e non andò più via. Principalmente la frustrò: sebbene fosse consapevole di essere sempre stata, in un modo o nell’altro, nella delicata posizione di ‘persona da proteggere’, fisicamente debole ed esposta ai rischi, costretta alle retrovie per evitare il peggio, non si era mai abituata al ruolo. Non l’aveva mai accettato. Percepire la stessa identica convinzione nella testa della licantropa, che allo stesso tempo, paradossalmente, amava definirla ‘la persona più forte che conosceva’, le provocò una morsa spiacevole allo stomaco.
    Sì, era stata avventata. Aveva agito apparentemente senza pensare. Se avesse fallito non avrebbe probabilmente avuto un’altra possibilità: i due mezzi angeli avrebbero o fatto fuori il demone o l’avrebbero perlomeno braccato con insistenza, non lasciandole più alcuno spazio di manovra. Il punto era che non aveva letteralmente altra scelta. Ciò che la costringeva a non agire attivamente contro i due mezzosangue era qualcosa che Alphard non capiva, e Irène non la biasimava di certo, ma allo stesso modo non vi avrebbe rinunciato solo per far contenta l’altra. Finché avesse avuto un’alternativa, l’avrebbe sfruttata.
    Proprio per quel motivo non doveva fallire. Si aggrappò alla pura e assoluta forza di volontà che impregnava quella decisione, e agì. Afferrò il demone terrorizzato per un braccio, forse bruscamente, tirandolo con sé dietro lo scudo: momenti dopo quel gesto, un altro colpo rimbalzò violentemente contro di esso incrinandolo maggiormente. Irène reagì bene al contraccolpo solamente grazie alla sua posizione rannicchiata, e al baricentro basso che ne conseguiva, ma nulla impedì al suo cuore di fare le capriole dalla sorpresa. No: dalla paura. Avrebbe dovuto ammetterlo prima o poi.
    Dopo aver lanciato una breve occhiata al demone, Irène arretrò di qualche passo portandolo con lei, ed esaminò lo stato dello scudo: un altro colpo, forse meno, e sarebbe andato in pezzi lasciandoli scoperti. Strinse le labbra, arrovellandosi per trovare una soluzione. Non aveva abbastanza energie per ri-evocarlo, e anche se le avesse avute non avrebbe potuto aiutare Alphard in alcun modo per via delle attenzioni assolute che avrebbe dovuto rivolgere proprio allo scudo. Non sembrava ancora possibile per loro lasciare la stanza senza rischiare di essere presi alle spalle, e senza lo scudo lei e il demone sarebbero rimasti scoperti, ma soprattutto disarmati.
    Prese ad osservare la licantropa, che le rivolgeva le spalle e continuava a farle da scudo col proprio corpo. Strinse un pugno e si alzò in piedi, lasciando la presa sul demone e degnandolo appena di un’occhiata quando quello si rivolse a loro pieno di terrore. Con un rumore di vetro infranto, nonostante non fosse quello il materiale di cui era composto, lo scudo si infranse per volere di Irène, che si trovò circondata solo per un secondo da frammenti traslucidi. Sparirono poco dopo, e la clericale tentò di far fare la stessa fine alla paura che le si era attaccata alle ossa.
    – Desistete, per favore. –, tentò nuovamente, mettendo nelle sue parole quanta più fermezza possibile, pregandoli sinceramente di non costringerla ad andare contro ai suoi ideali. Senza rendersi conto, infine, che in situazione come quelle gli ideali non contavano assolutamente niente.
    alzò una mano, mormorando qualche parola a mezza voce e poi rivolgendo proprio ad Alphard l’incantesimo. Il velo invisibile della Benedizione si adagiò sulle sue spalle, o almeno quella fu l’intenzione della clericale, che volle dare alla compagna tutto il supporto di cui disponeva senza ancora esporsi totalmente. Alphard avrebbe dovuto sentirsi più forte, più reattiva, più pericolosa di prima. Chissà che non bastasse a convincere i due mezzi angeli ad una ritirata.


    Irène

    Punti vita: 96/96
    Punti difesa: 43/43

    Abbandona lo scudo, usa Benedizione su Alphard
    Benedizione
    Bonus al danno: +7
    Durata: 7 ore
  9. .
    Di lì a poco Irène avrebbe fatto qualcosa di davvero stupido. Non ne era ancora sicura, e probabilmente più avanti avrebbe trovato un modo per volgere la vicenda a suo favore – soprattutto in caso di riuscita –, ma in quel momento non v’era dubbio nella sua testa che nient’altro, proprio niente, avrebbe funzionato.
    Era in una situazione difficile. Braccata da entrambi i lati: all’angolo rosso due creature nemiche ma di sangue angelico, quindi off-limits per lei, sia per convinzione che a momenti proprio per costrizione fisica; all’angolo blu, Alphard. Alphard, che aveva ascoltato la sua preghiera, più che il suo ordine, pur non essendo d’accordo con lei. Alphard in prima linea, a proteggerla nonostante lo scudo che Irène stessa aveva eretto, non si sa mai. Alphard, sicuramente delusa dal suo comportamento, ma che stava comunque aspettando il suo permesso prima di fiondarsi addosso ai gemelli che minacciavano la loro vita e la riuscita della missione.
    Infine, lei al centro del ring. Impossibilitata a muoversi, a scegliere se voltare le spalle ad una o l’altra fazione. Decisa a non farlo. La sua fede era forte tanto quanto il desiderio che Alphard si fidasse di lei, non discutesse le sue scelte, ascoltasse le sue parole. Non poteva e non voleva rinunciare a nessuna delle due.
    Una situazione difficile, appunto. Si potrebbe dire che fosse un male estremo. E in quel caso l’unica cosa che avrebbe funzionato sarebbe stato un estremo rimedio.
    Dopo aver visto il proiettile diretto a lei schiantarsi contro il suo scudo, crepandolo leggermente, Irène tornò con i piedi per terra e osservò ad occhi spalancati una Alphard nel bel mezzo della sua trasformazione. Diversamente dal solito, un’ondata di sollievo la colse alla sprovvista quando la sagoma massiccia della licantropa la nascose totalmente alla vista dei gemelli. Ci mise un po’ a contenere quell’emozione così fuori posto, data la situazione, ma anche quando non l’avesse fatto difficilmente avrebbe intaccato la mente di Alphard: d’altronde si era isolata da lei poco prima. Corrugò la fronte, non pensando a quanto la cosa l’avesse effettivamente indispettita, e si mise invece al lavoro.
    Il piano folle della clericale si basava sulla certezza che Alphard avrebbe tenuto occupato il gemello che la stava affrontando, e che l’altro sarebbe rimasto intontito dallo charme quanto bastasse per permetterle di acciuffare il demone loro obiettivo e metterlo al sicuro dietro il suo scudo. A quel punto avrebbero anche potuto battere la ritirata: con tutti i maghi e le creature potenzialmente pericolose dentro il locale, dubitava che i due mezzi angeli le avrebbero inseguite per molto.
    Una volta decisasi, strinse le labbra e lasciò l’analisi degli innumerevoli contro ad un momento successivo. Non ne aveva il tempo, né la forza mentale: era proprio per questo che stava dovendo ricorrere ad un piano stupido come quello. Non le era mai piaciuto doversi affidare a coincidenze, a ‘se’ che sarebbero potuti andare in fumo da un momento all’altro, ma non vedeva davvero alternative.
    – Te lo affido. –, disse solamente ad Alphard, a voce bassa ma sicura di averla raggiunta, prima di scartare di lato, verso l’ostaggio. La stanza era piccola, poteva raggiungerlo velocemente, e tirarlo a sé prima che l’altro gemello avesse il tempo di sparare un altro colpo. Se proprio ci fosse arrivato, era probabile che avrebbe colpito il demone di striscio, o comunque non in maniera letale, prima di metterlo al sicuro dietro il suo scudo. A quel punto… no, una cosa per volta.
    Raggiunto il gemello e il demone, allungò bruscamente una mano verso il secondo, appigliandosi al primo indumento o arto disponibile, poi tirò con tutta la forza che si ritrovò in corpo. Fece uno sforzo mentale per distendere lo scudo, manipolarlo in modo tale che coprisse non solo lei ma anche lui, così da non trovarsi scoperti nel caso in cui l’aguzzino riuscisse a riprendersi in tempo. Trattandosi di pochi e preziosissimi secondi non trovò il tempo di controllare che Alphard se la stesse cavando, ma in cuor suo sapeva che non ce n’era bisogno.


    Irène

    Punti vita: 96/96
    Punti difesa: 43/43

    Scudo della Fede ancora attivo.
    Punti vitai: 30-11=19

    Prova a tirare a sé il demone per proteggerlo dietro il suo scudo.
  10. .
    Da lì a poco Irène non avrebbe avuto certamente tempo di rimuginare sulle reazioni contrastanti provenienti da Alphard, ma sicuramente sul momento si sforzò di capire cosa la turbasse tanto della singola parola che le aveva rivolto. Alzò un sopracciglio, ricambiando l’occhiata sospettosa che l’altra le rivolse, distraendosi solo quando si trattò di dissimulare una sicurezza e una scarsità di vocabolario che purtroppo non aveva. Si ritrasse dal citofono con una smorfia di disappunto quando nessuno rispose o tantomeno aprì la spessa porta che le teneva separate dal loro obiettivo: con un sospiro e un’occhiata rivolta ad Alphard lasciò il palcoscenico a lei. Sicuramente la siriana non se lo fece ripetere due volte, sfondando la porta d’acciaio massiccio, sicuramente blindata, con un calcio. L’onda d’urto che causò fu abbastanza forte da agitarle violentemente i capelli sciolti e da costringerla e portare un braccio al volto per riflesso. Assottigliò le palpebre, guardandosi intorno allarmata e poi seguendo la licantropa all’interno della stanza con una certa fretta. Sicuramente il rumore avrebbe attirato attenzione, troppa, quindi avrebbero fatto meglio a sbrigarsi il prima possibile.
    La saletta, identica a quella nella quale si erano rifugiate qualche minuto prima, ospitava un uomo sulla cinquantina che aveva visto giorni migliori, tenuto a portata dalle canne di ben due pistole. I proprietari delle armi erano identici, silenziosi, inquietanti e abbaglianti. Attirarono immediatamente l’attenzione di Irène, che si ritrovò a fissarli ad occhi sgranati e bocca solo semi-aperta grazie al suo ferreo autocontrollo. L’unica cosa che la riscosse fu il movimento dei due ragazzi, e la vista delle pistole puntate contro di loro. Nella sua mente scattò qualcosa e Irène tornò del tutto in controllo, con il solito miscuglio di nervosismo misto a paura mista a irritazione. Senza muovere un muscolo, non evidentemente, evocò uno spesso e largo scudo traslucido a frapporsi tra i gemelli e loro, che traballò violentemente a causa del calo di concentrazione non appena Alphard identificò i due sconosciuti. Come colpita da una scossa Irène sussultò a fianco della licantropa, voltandosi verso di lei incredula.
    – … Stai scherzando vero? –, le chiese, cercando di mantenere il controllo della propria voce, che però ebbe un lieve tremito verso la fine. Tornò a guardare i due mezzi-angeli ad occhi sgranati, stringendo le labbra fino a renderle pallide quasi quanto la sua pelle. Era evidentemente turbata dalla cosa, alcuni potrebbero dire addirittura sconvolta. Però le crepe sullo scudo si spianarono, segno che era riuscita quantomeno a riprendere una certa concentrazione.
    Nonostante la presenza del demone si fosse fatta sempre più ovvia e insistente, la clericale non riuscì a staccare neanche per un attimo gli occhi dai due gemelli. In minima parte per cautela, ma principalmente per via della luce che continuavano ad emanare, come due stelle millenarie rinchiuse in una stanzetta di uno squallido strip-club. Non aveva mai posato lo sguardo su qualcosa di così luminoso. Il loro sangue era solo in parte divino, eppure quello già bastava per portarla sull’orlo delle lacrime. Non seppe dire se per il dolore alle cornee o per quello al cuore.
    – Aspetta… Aspetta, Alphard. –, riuscì finalmente a dire, con voce esitante e roca. Il suo volto era fatto di marmo, impenetrabile, tranne le pupille sensibili già arrossate e lucide. Non intrise le sue parole di magia, perché si aspettava che la licantropa volesse ascoltarla volontariamente. Anche volendo, tutta la sua concentrazione era rivolta allo scudo che avrebbe dovuto proteggerle dalla prima ondata di colpi nel caso in cui fosse andato tutto per il peggio. Le mancava il fiato solo al pensiero. Prese un bel respiro, alzando lentamente le mani come a dimostrare di non avere intenzioni bellicose, continuando ad osservare i gemelli.
    – Che affari… Cosa vi lega a quest’uomo? Cosa vi serve? Non c’è bisogno che nessuno si faccia male… Non… Non voglio. –, parlò lentamente, non senza qualche esitazione verso la fine, ma infondendo nel suo brevissimo discorso quanta buona volontà possibile. Cercò di mantenere almeno una parvenza di risolutezza, di calma esteriore, nonostante non si fosse mai sentita così combattuta e male a tutto tondo in tantissimo tempo.


    Irène Mariel
    Punti vita: 96/96
    Punti difesa: 43/43

    Attiva Scudo della Fede.
    Max punti vita assorbiti: 30
  11. .
    Era un periodo un po’ strano, quello. Di stasi. Intermedio. Una specie di limbo.
    In poche parole faceva parte dell’agenzia Demons May Die da ormai un paio di mesi, era a tutti gli effetti una cittadina di Dilagon City, ma allo stesso tempo sentiva di non conoscere abbastanza nessuna delle due. Né l’agenzia, né la città e soprattutto la vasta gamma dei suoi abitanti. Non era perfettamente ambientata. Dubitava che ci sarebbe mai riuscita, ma quello… quello era l’ultimo dei suoi problemi a dir la verità.
    Avete presente quel punto particolare durante lo sviluppo di una relazione, di qualsiasi tipo, dove una persona crede di conoscere abbastanza bene l’altra, le sue abitudini, le sue possibili reazioni, addirittura avere un’idea chiara di ciò che si prova nei confronti di quella persona… Ma di punto in bianco qualcosa arriva o accade che le fa crollare tutte le sue convinzioni come castelli di sabbia sotto l’impeto dell’onda?
    Irène si trovava esattamente in quella situazione. Limbo, come già detto.
    E la protagonista di quelle sue fisime mentali? Alphard, ovviamente. Forse peccando di presunzione, non reputava Angelus così difficile da inquadrare rispetto alla licantropa – o forse, solo forse, aiutava il fatto che del mezzo demone lei sapesse tutta la storia grazie alle registrazioni avvenute nelle celle del Vaticano. Poteva far risalire non tutti, ma quasi, i suoi comportamenti o le sue risposte, reazioni, a dei particolari del suo passato ormai noti a lei.
    Non poteva dire lo stesso di Alphard. Di lei Irène sapeva solo quello che la donna decideva di scrivere nei suoi diari, e fino a quel momento non aveva avuto spesso la voglia, o il coraggio se così si volesse dire, di chiederle di raccontarle qualcosa vis-à-vis, in modo tale da poter comprendere se e quando stesse mentendo. L’unica volta che l’aveva fatto era stata più che felice di cambiare argomento, e non vi era più tornata.

    Alphard, quindi, era su tutto un altro piano. Nonostante negli ultimi tempi il loro rapporto fosse in qualche modo cambiato, evolutosi dallo stadio di sfiducia e costanti litigi che animavano le loro prime settimane assieme, c’era ancora qualcosa che Irène non riusciva a capire della licantropa. O forse, tutti i dubbi risiedevano nella sua testa, senza una vera e propria ragione di esistere. Forse era solo lei a complicarsi la vita, a rendere la convivenza con la siriana più difficile di quanto non fosse mai stata prima di quel momento. Si sforzava, protendeva la mano verso di lei, ma ogni volta che credeva di aver colto qualcosa di nuovo sulla donna la sua presa si allentava e Irène ne usciva a mani vuote. Al punto di partenza. E più confusa di prima. Neanche a dirlo, la cosa la infastidiva oltre ogni limite.
    Nel suo caso, si trattava anche di un punto di partenza fondamentale per la comprensione dei propri ingarbugliati, complessi sentimenti contrastanti nei confronti della donna.

    (Quando si narra qualcosa, da un breve racconto a una decalogia di avventure apparentemente interminabili, si deve sempre partire con ordine: il punto d’inizio dell’epifania della clericale lo si può trovare in una sera come tante altre, dopo una cena come tante altre, mentre sfoglia un libro come tanti altri.)

    Irène faticava davvero a prendere sonno, in quegli ultimi tempi, ma non riusciva a comprenderne il motivo. Certamente i pochi casi truculenti che l’agenzia aveva portato a termine negli ultimi due mesi da quando era arrivata non avevano contribuito a pacificarle l’animo, soprattutto nelle ore buie nelle quali si sentiva perseguitata da decine di occhi invisibili e mostruosi a ogni angolo, ma lì il problema si presentava nei tentativi vani di mantenere il sonno, non di prenderlo.
    Erano ormai due ore che leggeva a vuoto la stessa pagina dell’antico volume di evocazione dei suoi avi, alla strenua di un libro di favole della buonanotte, nel tentativo di abbassare finalmente le palpebre e concedersi qualche ora di oblio. Allo scoccare dell’una del mattino lo chiuse con un tonfo e un sospiro, decretando la fine di quella farsa. Si alzò dal letto con movimenti stanchi eppure non troppo, non abbastanza, muovendosi per il piano inferiore dell’edificio di Angelus in camicia da notte smanicata. Dimenticò anche di avvolgersi nella vestaglia, ma col senno di poi non reputò di averne bisogno. Doveva solamente arrivare fino al bagno, più precisamente all’armadietto dei medicinali. I passi creavano un debole eco nello stanzone così ampio e poco arredato, e per quanto potesse pensare a non fare rumore sapeva benissimo che Angelus l’avrebbe sentita comunque, dormiente o meno, grazie ai suoi sensi fin troppo sviluppati.
    Volle provarci comunque. Non sia mai che definiscano Irène Mariel una maleducata.
    Si chiuse in bagno non appena ne ebbe l’occasione, accendendo la luce giallognola con un colpetto di due dita e strizzando gli occhi per il fastidio che la luce improvvisa le provocò. Quasi sibilò, alla strenua di un vampiro sotto il sole o di fronte a una croce – se vogliamo dare credito alle voci che circolano in giro –, schermandosi gli occhi con una mano e aspettando di abituarsi prima di guardarsi intorno. Aprì lo sportello dell’armadietto accanto allo specchio e scrutò con attenzione tutte le bottigliette presenti, fino a che non mosse una mano verso un contenitore in particolare.
    Integratore di melatonina. Miracoloso per chi soffre d’insonnia, e naturale. Quasi nessun effetto collaterale- dicevano. Non poté non sorridere leggermente alla genialità della propria idea, o forse era solo la stanchezza a parlare. In entrambi i casi, però, la soluzione era contenuta in quella bottiglietta ricolma di pillole. La portò con sé spegnendo la luce e uscendo dal bagno, quasi fluttuando sul pavimento con i piedi nudi per quanto veloce si mosse verso la sua umile e poco isolata stanza da letto. In sostanza, tre mura con una quarta formata da un semplice separé, e un letto in mezzo. In altre occasioni sarebbe rimasta minuti, se non ore, a lamentarsi dell’aspetto spartano di quella sistemazione, più umile anche dell’ultimo dei bagni del Palazzo Apostolico, ma in quel momento voleva solo dormire.
    Si sedette sul letto, aprendo il flaconcino e facendo scivolare sul palmo della mano solo una pillola, che con un gesto quasi impaziente avvicinò alla bocca fino a lasciar andare la pillola direttamente dentro la sua bocca. Ingoiò senza sforzo, si concesse un altro sorrisino, e posò il flacone sul pavimento accanto al letto prima di stendersi supina sul materasso e portare su di sé solo parzialmente le coperte.
    Era pronta. Chiuse gli occhi, pregustando già un sonno scuro, silenzioso, un sonno senza sogni. Il migliore, a suo parere.

    Integratore di melatonina. Miracoloso per chi soffre d’insonnia, e naturale. Quasi nessun effetto collaterale…
    Quasi.


    Chiuse gli occhi e li riaprì dopo quelli che le sembrarono semplici secondi. Nulla sembrò essere cambiato nella sua situazione, tanto che pensò che la pillola non avesse semplicemente fatto effetto. Aggrottò la fronte, infastidita, e provò a rigirarsi nel letto un paio di volte prima di appurare che no, il sonno non le sarebbe tornato tanto presto. Eppure non voleva esagerare con gli integratori, le indicazioni per l’uso consigliavano una sola pillola e lei non le avrebbe ignorate. Con un sospiro si rassegnò ad un’altra notte insonne e fece per saltare giù dal letto per andare almeno a bere un bicchiere d’acqua. Sentiva il proprio corpo più leggero, molto di più, anche mentre camminava con le piante dei piedi quasi a una spanna dal pavimento. Intorno a lei era buio, ma non sentì il bisogno di accendere la luce. Bevve un bicchiere d’acqua e poi, uscita dalla cucina, sentì delle voci dal piano di sopra. Erano distanti e ovattate, come se se le stesse solo immaginando, eppure le sembravano allo stesso tempo reali. Lasciò in maniera alquanto noncurante il bicchiere, che cadde per terra ma non si ruppe né smise di vorticare sul posto, lento e inesorabile, mentre lei iniziava a salire su per le scale che l’avrebbero portata al piano terra dell’agenzia.
    Una volta raggiunta la superficie, venne inondata dalla luce. Ma questa non le fece male alle pupille, che anzi si abituarono subito al cambiamento brusco e riuscirono a mettere a fuoco i dintorni senza problemi.
    L’ingresso dell’agenzia di Angelus sembrava andare a fuoco. Le pareti erano di un nuovo e insolito giallo acceso, e irradiavano luce come se fossero dei soli, istallati lì nello stanzone. Emanavano raggi caldi che la calmarono ulteriormente, facendole sciogliere le membra sempre troppo rigide, a partire dal viso: si rilassò e tirò le labbra in un sorriso pacifico, e soddisfatto. Era forse la prima volta in cui si sentiva così tranquilla e a suo agio in quel posto. Come se nulla potesse andare storto. Andò a sedersi al divano che Alphard aveva reclamato come suo, senza neanche stupirsi di non trovarla lì.
    Aveva sentito delle voci che l’avevano portata al piano terra, ma in quel momento era sola nella stanza. Non se ne curò, e si poggiò allo schienale del divano sfiorandone i cuscini con i palmi delle mani, accarezzandoli distrattamente. Era sicura che fino a un istante fa quella fosse pelle, ma passandoci sopra la mano avvertì una consistenza molto più morbida. Pelo. Pelo scuro e morbido, pulito, profumato. La differenza notevole non sembrò sorprenderla, Irène continuava a sorridere senza alcuna pena al mondo e ad accarezzare il divano ormai ricoperto di pelo. Avvertì l’odore di Alphard, odore forte e pungente, odore di terra bagnata dalla pioggia, odore di libertà combattuta e conquistata, e ora di nuovo sottratta. Non arricciò il naso come al solito. Non odorava del sapone con la quale usava strofinarle la pelle quasi ogni sera, ma era un buon odore. Piacevole. La rendeva felice.
    Un primo campanello d’allarme le risuonò in testa, ma così distante e ovattato che venne scambiato per un semplice rumore esterno, più che interno. E quasi a confermare la sua strampalata teoria, dopo qualche secondo la porta d’ingresso si aprì lasciando passare proprio la licantropa, in carne ed ossa e basta, dato che era in forma umana. L’istinto di quella Irène fu di sorriderle. Si alzò dal divano che odorava e sapeva di Alphard per raggiungere quella originale, in punta di piedi, leggerissima. Le evidenti differenze della donna, il suo aspetto più pieno, rotondo, il sorriso dolce e così terribilmente insolito che le rivolgeva, non la allarmarono per niente. Era normale. Era la solita Alphard.
    – Dove sei stata? Non dovresti sforzarti nelle tue condizioni. –, furono le parole dell’albina, che con il dorso della mano tracciò una carezza sulla guancia dell’altra. Normale. Perfettamente normale.
    – Scusa, per chi mi hai presa? –, protestò subito l’altra, con il suo solito tono roco e gutturale, ma con un’ombra di divertimento nella voce. L’albina si limitò a scuotere la testa e a sorridere, allungando le braccia verso il collo della donna per appendervisi e provare a darle un breve bacio.
    Era tutto normale. Alphard era normale.
    La solita lupa, la lupa che amava…
    La lupa che aspettava i suoi bambini.


    Un fruscio di coperte, un grugnito poco delicato ed elegante, e si poté riprendere.

    La stanza inondata di luce lasciò il posto a quella corrispondente, solo un piano più giù. I pilastri che solitamente adornavano la camera erano stati sostituiti da possenti colonne romane, di stile ionico, di un bianco perlato così come ogni altro oggetto o mobilio presente nella stanza. Irène si trovava poggiata ad una di esse apparentemente tranquilla, ma senza la minima idea di quando si fosse esattamente spostata. Vi si staccò guardandosi intorno, alla ricerca di qualcosa, o meglio qualcuno: Angelus era poco più in là intento ad affilare Kurohime, lo poteva sentire fischiettare un motivetto lento e familiare per lei. Forse una canzone sentita al suo jukebox.
    Si mosse come se sapesse già dove andare, e accigliandosi un istante proprio per quello. I suoi passi leggeri e fluttuanti la portarono oltre il separé che costituisce la quarta parete della sua camera: scostandolo, notò la figura di un grosso lupo, dal pelo scuro, che associò subito alla forma animale di Alphard. Riversa sul letto su di un lato e in chiaro sforzo, la licantropa uggiolò nella sua direzione come per chiamarla a sé. La pancia rigonfia della lupa era un chiaro segno, il più chiaro di tutti. Irène la raggiunse e iniziò ad accarezzarle preoccupata il muso, chiamando Angelus con tutta l’intenzione di urlare il suo nome, ma non riuscendo a tirar fuori più di un sussurro rauco.
    Perplessa, riprovò. Ma la voce pareva lasciarla man mano che i secondi scorrevano. A nulla servì schiarirsi la gola, non riuscì ad alzare la voce una sola volta. Accanto a sé Alphard stava per partorire e lei non aveva voce. Non aveva voce, e Alphard stava per partorire.
    Nella sua testa iniziò a insinuarsi il dubbio. C’era qualcosa che non andava.


    Sudava copiosamente, ma non riusciva ad allontanarsene. Non era abbastanza forte. Ancora un po’, solo un po’…

    Intorno a lei tutto era rosso. A partire dalle pareti, dal quale colava vernice densa e lasciva, al pavimento che stranamente sotto i suoi piedi scalzi sembrava erba. La consistenza era quella, ma verteva più sul morbido, e ad ogni passo il terreno traballava sotto i suoi piedi, agitandosi come se in realtà stesse camminando su un materasso ad acqua.
    Niente le faceva più pensare che quella fosse la realtà. Un orologio appeso alla parete, ad intervalli di meri istanti, segnava sempre un’ora diversa; frastornata, lei andò per staccarlo dalla parete e ripararlo ma non vi riuscì. Incollato al muro, e impazzito. Un po’ come lei, impossibilitata a lasciare quel mondo per colpa di un integratore un po’ troppo efficace.
    Su un divano che si materializzò sotto il suo sguardo confuso, si rivelò la figura nuovamente in forma di Alphard, seduta composta ad un lato, lasciando il resto dei posti a sedere per quattro bambini tutti della stessa età. Tre maschietti dalla pelle olivastra, due dai capelli scuri e un biondo, tutti con gli occhi chiari. Uno di essi, il biondo, aveva i canini particolarmente sviluppati e senza poter controllarsi mostrava due orecchie da lupo color biondo sabbia. Una femminuccia, invece, che era l’esatta immagine riflessa di Irène: albina anche lei, le sorrideva. Proprio a lei. I suoi tre fratelli giocavano tra di loro come se la donna non ci fosse, ma l’unica bambina, insieme ad Alphard, si erano accorte della sua presenza.
    – Vieni qui, Iri. –
    – No. –
    La licantropa si accigliò, come se non si aspettasse una risposta simile. Irène di riflesso si irrigidì, nel vedere la mano della donna allungarsi verso di lei come per guidarla. Fece un solo passo indietro, scuotendo piano la testa.
    – Perché? Non vuoi stare con la tua famiglia? –. Il tono di voce della donna di fronte a lei pareva genuinamente perplesso.
    – N-Non… non è questa, la mia famiglia. Voi- Loro non sono reali. –, ribatté sulla difensiva l’albina, indicando con un cenno i quattro bambini. La femminuccia continuava a fissarla.
    – Vorresti che lo fossero? –
    – Perché dovrei? Non- –
    – E’ un tuo sogno. Non venire a dirlo a me. –. Alphard scoppiò in uno sbuffo divertito portando le mani in avanti in segno di resa, poi gettò uno sguardo alla ‘figlia’. Quella si alzò, piccola e fragile, facendo qualche passo perfetto verso la donna, che invece era talmente confusa da rischiare di inciampare su se stessa a causa del terreno così instabile. La vernice cremisi continuava a colare dalle pareti, inesorabile.
    La bambina non emise un suono, rimanendo a fissarla con l’ombra di un sorriso esageratamente consapevole in volto. Fece irritare Irène, che si chiese se non fosse per caso quello l’atteggiamento che teneva quotidianamente. Fastidiosissimo. Ignorò la bambina e tornò su Alphard, o sulla brutta caricatura della licantropa, aggrottando le sopracciglia e tagliando l’aria con la mano.
    – Non è questo che voglio. Non voglio un sogno impossibile e illogico. Né voglio il tuo sorriso dolce, o le tue carezze, ora o più avanti. Non voglio te. –, serrò le labbra bloccandosi, e la sua convinzione vacillò per un attimo. Prese un bel respiro, prima di continuare.
    – Non voglio questa te. E poco ma sicuro non voglio dei bambini. –, concluse con una nota ironica per camuffare la sua più recente e tremenda ammissione.
    Nel momento in cui decise di non aver bisogno di lei, il fantoccio di Alphard si ammutolì e lo sguardo si fece vuoto. Come una bambola rotta, fece ciondolare la propria testa in avanti, e lo stesso accadde ai tre bambini. Senza vita, una vita che avevano ricevuto in dono solo in quel suo sogno.
    La bambina rimase a fissarla, non accennando a fare la stessa fine dei ‘fratelli’. La guardava con un certo luccichio negli occhi, a Irène sembrò…
    fiera. Fece un passo verso di lei, la piccola, senza accennare a fermarsi un istante: con tranquillità le attraversò il corpo, svanendo poco dopo…

    E Irène, quella vera, si svegliò con uno spasmo violento.
    Sudata, stravolta, con ancora un urlo non liberato ad ostruirle la gola. Presa dal panico si guardò intorno frenetica, assicurandosi che nulla fosse diverso dal solito, dandosi vari e crudeli pizzicotti sul braccio, facendo cadere la boccetta di integratori di melatonina a terra alzandosi con foga, spingendola via col piede.
    Era mattino. Poteva capirlo dal profumo di pizza riscaldata che Angelus sicuramente stava preparando per colazione, e dall’abbaiare della licantropa al piano di sopra contro il povero postino. Irène uscì dalla sua stanza, scostando il separé, rifugiandosi in bagno senza neanche dare il tempo al mezzo-demone di darle il buongiorno. Aprì lo sportellino dei medicinali e prese la seconda boccetta uguale a quella che aveva portato in camera con sé la sera prima. La aprì, e ne svuotò tutto il contenuto nel gabinetto con una furia ostinata che poche volte si era impossessata di lei.
    Osservando l’acqua dello scarico vorticare portandosi via le pillole, si ripromise due cose: mai, mai, MAI far capire ad Alphard quello che lei stessa aveva capito solo in quel momento, e…

    Da quel momento in poi, solo camomilla.


    Caratteri (senza formattazione): 18.055
  12. .
    Non avrebbe mosso un piede finché Alphard non le avesse dato la risposta che desiderava. Non era molto difficile da indovinare, dato che gliel’aveva appena suggerita lei stessa, ma avendo a che fare con Angelus non era mai sicura di cosa avrebbe dovuto affrontare- mai in tempo utile almeno. Per una volta voleva tutti i fatti, tutti, prima di andare avanti.
    Fortunatamente per entrambe le presenti in quella saletta, per non parlare del mezzo demone che le aveva portate lì, Alphard sapeva benissimo cosa risponderle. Il fatto che fosse determinata a tener fede alle sue parole, piuttosto che ripeterle senza crederci davvero, era sicuramente un bonus.
    I lineamenti del volto di Irène si ammorbidirono lievemente, e finalmente la ragazza posò la mano sulla maniglia. Rimase però qualche altro secondo con gli occhi rivolti ad Alphard, limitandosi a sondare la sua espressione e non la sua mente per trovare ulteriori conferme. In certi casi non ne aveva neanche bisogno. Quando poteva, preferiva non approfittarne.
    – Bene. –, concluse, sospirando e rilassando le spalle. Non la riempì di certo di lodi, come forse Alphard avrebbe voluto, ma era sicuramente soddisfatta. Gli occhi si animarono di una nuova determinazione, e come a confermare il suo gradimento annuì leggermente. Infine gonfiò il petto, prendendo un bel respiro e decidendosi finalmente a distogliere lo sguardo per rivolgerlo all’uscio: abbassò la maniglia e si immise nel corridoio, lasciando passare anche Alphard e poi chiudendosi la porta alle spalle. Erano sole al momento, probabilmente gli altri ‘inservienti’ avevano altre faccende di cui occuparsi. Lasciò Alphard come capofila, seguendola da vicino, tirandosi sulle dita i lembi delle maniche del cappotto in una serie di piccoli gesti atti ad allentare un lieve nervosismo che inevitabilmente la coglieva durante compiti del genere. ‘Missioni’, se fosse possibile chiamarli così. Per via delle pareti insonorizzate lei non colse alcun suono o movimento, dal basso della sua natura umana; il problema stava nel fatto che valeva lo stesso anche per Alphard, a giudicare dall’assenza di reazioni. Nessuna delle due sentiva niente, il che le rendeva particolarmente scoperte ad eventuali attacchi a sorpresa.
    Si consolò con la consapevolezza che, tecnicamente, la sorpresa era dalla loro parte.
    Arrivate di fronte alla porta in questione, Alphard bussò e parlò a vuoto un paio di volte prima di spazientirsi. Ci mise anche più del solito, il che mostrava segni di crescita almeno secondo lei. Avrebbe approfondito la cosa un’altra volta, però, preferendo distogliere la licantropa dall’idea di buttare giù una porta blindata con la sola forza bruta. Non che non credesse che dopo un paio di spinte ce l’avrebbe fatta.
    – Aspetta, provo io. –, la fermò a parole, allungando un dito verso il pulsante del citofono annesso alla porta. Si avvicinò con il busto al microfono, mettendosi in punta di piedi e osservando distrattamente il numero della camera mentre pensava velocemente a qualcosa da dire. Si schiarì la gola, cercando di liberarsi della sua solita voce seriosa e precocemente anziana. Mise pure su un sorriso largo e palesemente finto, per calarsi ulteriormente nella parte.
    – Scusate, signori, vi andrebbe qualcosa da bere? Offre la casa, per il… disturbo arrecatovi! –. Carino, da parte sua, pensare che qualcuno da quelle parti potesse usare ‘arrecare’ quotidianamente in una conversazione. La sua voce risultò particolarmente acuta e, ad un ascolto attento, lievemente tremolante, ma perlomeno in quel modo dovrebbero averle sentite. Si scostò dal citofono, atterrando sui talloni silenziosamente e abbassando il braccio, aspettando. Avrebbe probabilmente aspettato una trentina di secondi, dopo i quali in assenza di una risposta avrebbe semplicemente lasciato fare ad Alphard ciò che avrebbe voluto fare fin dall’inizio.
  13. .
    Non si soffermò più di tanto sulle scuse portate avanti da Alphard. Che l’avesse fatto per se stessa o per lei, ciò che contava era che avesse effettivamente fatto qualcosa. Non che Irène se lo aspettasse a prescindere perché la licantropa era legata a lei. Non si aspettava un trattamento di riguardo, così come lei sperava di non comportarsi a quel modo con Alphard. Era…
    Era complicato. In ballo c’erano un bel po’ di sentimenti contrastanti, e fu anche per questo che preferì non indugiare sull’argomento. Erano nel salottino privato di uno strip club, sedute su un divano che sicuramente aveva ospitato molto peggio che i loro regali sederi, e stavano dando la caccia a una persona. O, molto probabilmente considerato il genere di lavoro che svolgeva Angelus, qualcosa di ben lontano da un essere umano. Sicuramente c’era altro a cui pensare.
    L’idea che l’obiettivo avrebbe potuto non far parte della clientela le risultò nuova. Per qualche motivo non ci aveva mai pensato. Fece in modo di non farsi cogliere troppo di sorpresa, ma per una volta lasciò Alphard libera di ragionare per conto suo, il che avrebbe comunque potuto far capire quanto indietro fosse rimasta, per quanto riguardava il caso.
    – Sopravvivrò. –, ribatté sarcastica al commento di Alphard, senza piangere troppo sul fatto di non poter godere della presenza di una delle ballerine del locale. Era visibilmente sollevata, in realtà. Sarebbe stata una situazione come minimo imbarazzante, forse anche spiacevole.
    Dandosi una botta di coraggio, e incoraggiata dalla comodità del divano, si azzardò a poggiarsi allo schienale del mobile. Quindi accavallò le gambe, alzando il capo verso una Alphard che, al contrario, si era alzata e stava girando in tondo come una belva innervosita in una gabbia troppo piccola. Alzò un sopracciglio, incrociando le braccia al petto.
    – Farà meglio a darci tutti i dettagli del caso, la prossima volta. Non sono tenuta a lavorare per lui, né a stare ai suoi giochetti. –, un promemoria per Alphard così come per se stessa. Picchiettò con le unghia sull’incavo del gomito, irritata da quella novità, salvo poi seguire con lo sguardo la figura della licantropa improvvisamente attirata da un movimento e un’ombra all’esterno della saletta. Quando aprì la porta, oltre la sagoma di Alphard, Irène poté notare un’altra figura femminile, in tutto per tutto normale dalla vita in su. Le gambe, invece… beh, molto meno umane del resto.
    Colta di sorpresa, Irène distolse immediatamente lo sguardo. Era consapevole di quanto potesse dare fastidio uno sguardo insistente, quando si era ‘diversi’. Probabilmente quella ragazza era abituata a cose del genere, lavorando a stretto contatto – un eufemismo – con il pubblico, ma comunque preferì non aggiungersi alla schiera di persone maleducate. Ascoltò lo scambio di parole tra di loro, non notando nulla di particolare dato che non era provvista del super-olfatto della licantropa. Solo quando quella si chiuse la porta alle spalle e annunciò cosa aveva scoperto lei si voltò nuovamente, alzandosi di scatto per la novità.
    – Finalmente. Andiamo, prima finiamo e meglio è... –, decise, assicurandosi di non star dimenticando nulla lì dentro e poi muovendosi verso la porta. Abbassò la maniglia, ma non la aprì ancora. Lanciò un’occhiata ad Alphard, prima.
    – Angelus ti ha detto cosa vorrebbe che ne facessimo di lui, o anche quello è da indovinare? Perché se ha intenzione di farlo morire è fuori strada. –, le chiese, approfittando della camera insonorizzata per parlare più liberamente.
  14. .
    Anche in un’esistenza piena di disavventure come la loro si trovava sempre tempo per fare un po’ di shopping. Si trattava di beni di prima necessità in quel caso, primo tra tutti il cibo, che iniziava a scarseggiare nella cucina dell’agenzia Devils May Die. Per non rischiare di ridursi a pane e yogurt come qualche settimana prima, un po’ di spesa era necessaria, se non essenziale.
    Il piano originale consisteva, appunto, in una visita al supermercato del quartiere, un gelato al chiosco lungo la strada – un vero successone, da quando ne aveva portato un po’ a casa –, e poi immediato ritorno a casa. Qualcosa di semplice e veloce, come piaceva a lei, che le avrebbe permesso anche di tornare in tempo per rilassarsi una ventina di minuti prima di iniziare a cucinare.
    Però, purtroppo per Irène, da quando conosceva Alphard era difficile che un piano dei suoi andasse come avrebbe sperato.
    – V… in… cccc… –, stava farfugliando la licantropa in questione, in fila alla cassa insieme a lei, tenendo un cartoncino colorato a neanche un palmo dal suo naso. Da quando Irène aveva iniziato ad insegnarle a leggere, la trovava a testare le sue abilità praticamente su qualsiasi cosa. Come una bambina.
    La clericale allungò il collo nella sua direzione, lasciando le dita a tamburellare sul manico del carrello.
    – Fa’ vedere? –, le chiese, corrugando la fronte indispettita quando l’altra, per dispetto o per orgoglio, allontanò ulteriormente il pezzo di carta da lei, voltandosi. Fissò la sua schiena per un paio di secondi, poi roteò gli occhi e tornò a prestare attenzione alla fila, accennando ad un ‘come vuoi’ a malapena udibile. Iniziò a svuotare il carrello, posando la spesa sul nastro trasportatore, controllando di non fare confusione con gli articoli della signora di fronte a lei. Osservò il suo cappello stravagante, i capelli candidi come la neve, e il piccolo barboncino che si affacciò dal carrello non appena la padrona tirò fuori l’ultima busta di verdura. Quando il cagnolino prese a fissarla con la lingua a penzoloni la ragazza gli rivolse un sorriso intenerito e agitò la mano per salutarlo. Se dapprima il cagnolino iniziò a scodinzolare, con l’intenzione di farsi un po’ più vicino e annusarle la mano che Irène aveva allungato, qualcosa o qualcuno gli fece cambiare idea e stato d’animo in generale. Guaì una sola volta e piazzò la coda tra le gambe, affannandosi per scendere dal carrello e raggiungere la padrona poco più avanti. Irène aggrottò le sopracciglia, perplessa, osservandosi la mano come se fosse stata quella il problema: poi avvertì la presenza minacciosa di Alphard alle sue spalle e sospirò, alzando gli occhi al cielo.
    – Era solo un barboncino. L’hai spaventato. –, le fece notare, senza voltarsi dietro di lei, osservando sconsolata il cagnolino che si allontanava. Poi le rivolse un’occhiata severa da oltre la spalla, riscontrando nel volto e nell’atteggiamento della licantropa solo soddisfazione. Perfetto. Ricambiò l’occhiata con un sorriso tronfio, poi le agitò di fronte alla faccia il cartoncino di poco prima.
    – Quanti sono 50.000 dollari? –, le chiese, senza neanche degnarsi di rispondere all’accusa di poco prima. Irène allungò una mano per toglierle di mano il biglietto, infastidita dal suo continuo sventolio, osservandolo sommariamente e girandolo un paio di volte su se stesso. Era un gratta e vinci, come ne aveva visti tanti.
    – Tanti, in teoria. Puoi comprarci… un’auto, una casa se ti accontenti di poco… –
    – Quanta carne? –, la incalzò la siriana, interrompendola a metà discorso. Fece finta che la cosa non l’avesse infastidita, limitando la smorfia che le increspò le labbra, e preferì cercare una risposta sensata alla domanda assurda di Alphard. Ammettendo che un chilo di carne costi sui 20 dollari, moltiplicando la cosa per 50.000…
    – 2.500 chili di carne, in media. Sarebbero… –.
    Quanto pesava un orso bruno? 400, 500 chili?
    – … Cinque orsi bruni? –, concluse, portando un dito al mento e picchiettandolo pensierosa. Un conto molto approssimativo, ma non del tutto sbagliato, almeno credette sul momento. Parve bastare ad Alphard, che riprese con la forza il biglietto e tornò a leggerlo. Questa volta riuscì a pronunciare le parole scritte sopra con più facilità. Probabilmente le aveva ripetute fra sé e sé fino a che non ci fosse riuscita.
    – C’è scritto ‘Vinci subito’. –, affermò, soffermandosi su Irène per qualche secondo. Non formulò la frase come una domanda, ma lei intese quella pausa come un’attesa di conferma. Fece un leggerissimo cenno affermativo con il capo, incrociando le braccia al petto e aspettando che continuasse, in un certo senso curiosa di dove volesse andare a parare.
    – Bene, allora prendiamoli! Non mangio carne di orso da secoli. –. Buffo che avesse scelto proprio quell’espressione, tra quelle che aveva imparato nei suoi mesi trascorsi nel ventunesimo secolo. Ghignò apertamente, conscia della battutona che aveva appena fatto, e riuscì a strappare un sorriso pure a Irène.
    Non voleva dire che l’avrebbe accontentata, però.
    – Non si vince mai con queste cose. Sono fatti apposta per farti spendere soldi pur continuando a perdere. Non ne vale la pena… –, borbottò, voltandosi verso il nastro trasportatore e provando, per una volta, a dare conto alla cassiera che le stava aspettando ormai da quasi un minuto per pagare.
    – Ohi, che ti costa! Proviamo! E’ un pezzo di carta, quanto può costare? –, sentì Alphard insistere dietro di lei, allungando il braccio con molta più facilità per riprendere a sventolarglielo davanti. Irène provò a portare indietro il capo man mano che il biglietto si avvicinava al suo viso, arricciando naso e labbra in una smorfia irritata, e sistemandosi invano la montatura degli occhiali che continuava però a spostarsi per via dei movimenti della licantropa. Non volendo far perdere ancora tempo alla cassiera, e intenzionata a far smettere la siriana, spinse via la sua mano e la invitò a fermarsi con un ‘alt!’ eloquente del palmo, e un sospiro.
    – Ok, ok! Prendilo. –, si arrese, in poche parole. C'era poco da fare con lei.
    Alphard sfoderò il suo sorriso vittorioso più brillante, allungandosi per prenderne un altro ancora in tutta tranquillità.
    Irène sgranò gli occhi, aprendo già la bocca per protestare, ma quando la cassiera si schiarì la voce per avere la sua attenzione si sforzò di non esplodere.
    – Se le interessa ne diamo uno in omaggio, prendendone due! –.
    Quelle parole attirarono la sua attenzione più degli sghignazzi di una Alphard che già pregustava il suo banchetto a base di selvaggina fresca. Più delle proteste sussurrate dei clienti in fila dietro di loro.
    Senza dire nulla, fu Irène stessa a piazzare sul nastro trasportatore un terzo gratta e vinci.

    Quando uscirono dal supermercato le accolse il temporale. Irène non mise piede oltre la piccola tettoia che le stava dando temporaneamente riparo, muovendosi sotto di essa fino al punto dove riporre il carrello e parcheggiandosi lì. Si rassegnò ad un’attesa che avrebbe potuto facilmente sconvolgerle i piani, ammesso che non l’avesse già fatto. Alzò gli occhi al cielo scuro, salvo per gli occasionali tuoni, giudicandolo colpevole di ogni sua sfortuna. Si sporse in avanti sul manico del carrello, incrociando le braccia e poggiandovi sopra la guancia, occhi rivolti ad Alphard accanto a lei, anzi non più: era arretrata nel frattempo, sedendosi su un gradino adiacente alla parete esterna del supermercato, intenta ad osservare i tre gratta e vinci con un’intensità tale da pretendere quasi che i soldi uscissero fuori dai pezzi di carta al suo minimo comando. Irène indugiò un paio di secondi, rimanendo ad osservarla, prima di raddrizzarsi, recuperare le buste della spesa dal carrello, e infine raggiungerla. Sistemò per bene il cappotto sotto le gambe, sedendosi accanto a lei e lasciando le buste ai suoi piedi. Poi pescò, dalla sua mano, uno dei tre biglietti. Lesse le istruzioni, voltando il foglio, prima di parlare.
    – Dobbiamo trovare tre volte lo stesso numero, se lo troviamo quella è la nostra vincita. –, spiegò, prendendo dalla tasca un borsellino con qualche moneta. Ne tirò fuori una per lei e una per Alphard, che osservò l’oggettino senza capire.
    – Non te lo vendo il mio. –, protestò, zittendosi poi quando vide Irène iniziare a grattare via la patina argentata da una porzione del biglietto. La clericale preferì non correggerla di nuovo, lasciando che capisse da sola con una dimostrazione pratica. Grattando scoprì un paio di 300, un 1000, un 500… un 50.000… due 50.000?
    Mancavano tre aree da grattare, quindi tre numeri. Le dita di Irène esitarono per un istante, e la cosa a quanto pare non sfuggì ad Alphard, perché sentì ben presto la sua mano impaziente strapparle via il biglietto e mettersi all’opera in prima persona. Fu molto meno delicata quando grattò via, sotto gli occhi sgranati di Irène, il resto della patina argentea. Con il cuore in gola la ragazza non le chiese niente, neanche quando la licantropa dovette avvicinare di nuovo il biglietto al volto per leggere bene le cifre sbiadite e semi-nascoste dalla polverina difficile da rimuovere.
    Però, alla fine, arrivò un responso.
    – 50.000! Ci sono tre 50.000! –, ruggì entusiasta Alphard, facendo sobbalzare la clericale. Cacciò giù il groppone che le intasava la gola, boccheggiando a corto di parole e riscuotendosi solo quando accanto a loro si aprirono di nuovo le porte del supermercato, lasciando uscire una coppia di uomini con un paio di buste ciascuno in mano. Quelli si voltarono a guardarle per un paio di secondi, confusi dal chiacchiericcio così come dalla strana accoppiata, e lei si affrettò a voltarsi verso Alphard e farle cenno di abbassare la voce. L’ultima cosa che voleva era attirare attenzioni sgradite.
    – Sei sicura? –, le sussurrò, tirando a sé il biglietto e controllando a sua volta. Alphard non si diede neanche il tempo di offendersi per quella mancanza di fiducia, perché andò subito a grattare anche il suo. Fece tutto in una volta, mentre ancora Irène cercava di abituarsi all’idea di aver appena vinto alla lotteria, dandole un colpo euforico sul braccio quando finì.
    – Cazzo Iri, abbiamo sculato! –, gridò di nuovo, ignorando il suo avvertimento. Mai più televisione per Aphard. Lo promise solennemente.
    Dato che la licantropa aveva presto preso l’abitudine di sventolarle addosso qualunque oggetto si ritrovasse in mano senza ritegno, quella volta la clericale la anticipò e prese per prima il secondo biglietto. Dopo una breve lettura, e almeno dieci controlli per essere sicura di non aver capito male, scostò gli occhiali con le nocche e si massaggiò la radice del naso, battuta dalla mole di fortuna che avevano appena avuto.
    Cinquantamila dollari. Ciascuno.
    – Chi ce li dà? Dove li andiamo a prendere? –
    Irène non riusciva a crederci. Contò fino a dieci e controllò di nuovo, ma le cifre erano sempre le stesse.
    – Credo… in banca? Non lo so, torniamo dentro e chiediamo… –
    Alphard non se lo fece ripetere due volte, e si tirò su con uno scatto. Iniziò a fissarla insistentemente, chiaramente spazientita dalla sua esitazione, ma lasciandole comunque il tempo di metabolizzare la cosa e di ritrovare il controllo delle proprie gambe.
    – Ohi, ti sbrighi? La vuoi o no questa carne? –, la spronò, indicando con un ampio gesticolare l’entrata del supermercato. Ma ben presto smise di lamentarsi, e cadde nel silenzio, cosa che fece insospettire anche la clericale. Alzò lentamente il capo, guardando prima il volto indurito e i denti scoperti di Alphard, poi la causa della sua reazione improvvisa.
    I due uomini di poco prima, attirati come falene intorno alla luce dai ruggiti euforici di Alphard, le avevano ormai quasi raggiunte e sembravano avere le intenzioni meno amichevoli di questo mondo. Entrambi ben piazzati, rasati e vestiti in pelle e borchie, probabilmente facevano parte di una banda. Ma chi esattamente non lo era, in quella città?
    – Siamo invitati per caso? –, si introdusse uno dei due, con un ghigno poco raccomandabile, adocchiando i biglietti ancora in mano di Alphard e ignorando completamente le due ragazze. Irène si alzò di scatto, allarmata, e l’altro tipo le intimò di stare ferma con il palmo aperto e rivolto verso di lei, prima di consigliarle di mollare i gratta e vinci con le dita.
    – Forza, dai, collaborate e ve ne andrete tutte e due con i visini puliti, ok? –, continuò il primo, tirando prepotentemente su col naso. Alphard, che era rimasta immobile fino a quel momento, fece lo stesso dopo qualche secondo. Al contrario suo, però, con un motivo ben preciso.
    – Non è quello che mi preoccupa. –, borbottò Irène, stringendo i pugni.
    Dopo una bella annusatina rivolta proprio ai due tipacci, la licantropa sospirò e afflosciò le spalle, come delusa. Si voltò verso Iri, trovandola già a fissarla di suo, e fece spallucce.
    – Non ne vale neanche la pena. –, decretò, irritata dalla debolezza dei suoi oppositori, ma allo stesso tempo divertita dalla loro baldanza senza fondamenta. Poi tornò a fissarli e alzò il braccio in alto, sventolando i due biglietti vincenti. Sfoderò la sua migliore faccia da schiaffi, invitandoli con un ghigno. Assottigliò le pupille, senza più nascondere i canini affilati. Iniziò ad emanare un’aura per niente affidabile, che nei primi tempi avrebbe spaventato anche Irène.
    – Venite a prenderli, se ne avete il coraggio! –, li sfidò quindi, a gran voce. Quelli parvero esitare, come bloccati sul posto da un’ondata di terrore che li attraversò entrambi, ma finalmente il primo si riscosse e diede una pacca all’altro, anticipandolo nella carica contro Alphard. Lei aspettò che l’uomo scagliasse il primo pugno prima di reagire, abbassandosi per evitarlo e piazzandogli una gomitata sullo sterno, seguita da un calcio allo stomaco che lo spinse dritto contro il suo compare in corsa dietro di lui. Come a dimostrare la sua analisi iniziale, quelli caddero a terra come birilli. Quello più malmenato sputò a terra un grumo di bile e di sangue, ringhiando contro Alphard.
    – Puttana! –, sbraitò, tirandosi su sui gomiti e prendendo una pistola dalla cinta, puntandola verso Alphard. Quella osservò la scenetta in silenzio per giusto un paio di secondi prima di mettersi a sghignazzare apertamente. Trovò la cosa ancora più divertente quando Irène, da dietro, più per istinto che per altro fece volare di mano al tipo l’arma, con un semplice movimento della mano.
    – Non sai neanche tenerti la pistola in mano come si deve? Non ti meriti la mia carne! –, si accanì a quel punto la siriana, raggiungendolo con qualche passo ben piazzato e facendolo crollare nuovamente a terra con un calcio ai reni. Quando il suo compare provò a rialzarsi con un coltello in mano, calciò via anche quello. Infilò i biglietti in tasca e lo tirò su per il colletto, puntandogli addosso gli occhi selvaggi.
    – Sicuro di voler essere ancora invitato? –, lo provocò, e Irène stessa avvertì il piacere provocato dall’espressione di puro terrore che quella frase, insieme a tutto il resto, mise addosso all’uomo. Un sentimento non suo, ma non per questo meno intenso. La siriana chiuse la mano a pugno, pronta a stendere del tutto anche il secondo tipo, ma improvvisamente non poté più muovere il braccio. Una presa inamovibile ma familiare avvolse le sue membra, impedendole di fare qualunque cosa.
    Anche di voltarsi verso Irène, che l’aveva completamente in pugno.
    – E’ arrivata la polizia. –, le spiegò la clericale, allentando pian piano la presa sulla licantropa. quella si rimise in piedi, lentamente, allontanandosi dai due uomini mentre due agenti scendevano dalla volante appena parcheggiata di fronte al supermercato. Irène raggiunse Alphard, lasciando perdere la spesa per il momento, osservando i poliziotti avvicinarsi.
    – Collaboriamo. Siamo nel giusto. –, aggiunse, a bassa voce, senza distogliere lo sguardo. Serrò la mascella, sapendo di non trovarla d’accordo e trovandone la conferma quando il suo disappunto arrivò fino a lei, ma si tranquillizzò quando la vide annuire.
    – Che succede qui? –, domandò uno dei due agenti, inquisitore, osservando prima i due malmenati a terra e poi le ragazze senza un pelo torto, solamente bagnate fradice. Qualcosa non gli quadrava, e Irène poté leggerglielo tranquillamente nello sguardo. L’altro agente andò a controllare lo stato dei due uomini, e lei seguì i movimenti per un po’ prima di rispondere al poliziotto che aveva di fronte.
    – Hanno provato ad aggredirci. La mia amica si è solo difesa. –, spiegò in poche parole, ignorando le lamentele che provenivano dal tipo ancora capace di parlare.
    [color=red]– Quella puttana è una pazza! Non è normale! –
    , aggredì verbalmente Alphard, indicandola pure con il braccio tremante, pulendosi la bocca sporca di sangue con la manica della giacca. La siriana alzò un sopracciglio nella sua direzione, senza negare la cosa. Anzi, tirò le labbra in un sorrisino affilato tutto per lui, che lo portò subito a distogliere lo sguardo.
    – Avevano intenzione di derubarci, probabilmente ci hanno sentito par… –
    – Va bene, va bene, dovrà spiegarcelo in centrale. Tutte e due. Marge, chiama un’ambulanza per loro invece. –, la interruppe bruscamente il poliziotto, iniziando già a trafficare con la cinta slabbrata per prendere un paio di manette. Irène, già irritata dalla mancanza di rispetto, si accigliò visibilmente alla vista dell’oggetto. Il fatto che la pazienza di Alphard continuasse ad affievolirsi la spinse ad intervenire.
    – Non credo ce ne sia bisogno, le pare? –, protestò, mantenendo un tono calmo almeno in apparenza. – Stiamo già collaborando. Se mi lasciasse spiegare- –
    – Le ho detto che lo farà in centrale. Adesso in macchina. –, concluse sbottando l’agente, lasciando perdere la questione delle manette ma spronandole comunque a raggiungere la volante. Irène serrò le labbra, contenendo a malapena la rabbia per quell'affronto: fece dietrofront, ignorando le proteste del poliziotto che non sfoderò la pistola solamente perché Alphard fu lesta a schiarirsi minacciosamente la voce e intimidirlo con il solo sguardo, recuperando le buste della spesa e dividendosele con la licantropa a metà strada. Non degnò di uno sguardo il poliziotto né la collega, sistemando i sacchetti tutt’intorno a loro sui sedili posteriori dell’auto, entrandovi insieme ad Alphard e chiudendosi lo sportello dietro.
    Visto che era obbligata, tanto valeva approfittarne per un passaggio.

    Rimasero in centrale quelle tre ore necessarie a rendere vagamente irritante una procedura già del tutto inutile. Inizialmente presero le loro informazioni personali, le sue parzialmente vere, quelle di Alphard del tutto false per cortesia dell’Agenzia, poi finalmente lasciarono spazio ad Irène per spiegare l’accaduto. Una volta avuta la loro versione le lasciarono ad aspettare nella sala interrogatori, per averle sott’occhio e non perderle nella folla che abitava i corridoi della centrale. Chiunque si fosse messo ad osservarle da oltre lo spesso vetro avrebbe potuto facilmente notare come la stanza fosse piena di buste verdognole piene di spesa, che Irène aveva cocciutamente portato con sé fin lì. Più avanti le avrebbero rilasciate, dopo aver sentito anche la versione dei due uomini che le avevano aggredite, troppo nel torto e spaventati per sporgere denuncia, non senza una mora da pagare, ininfluente rispetto ai soldi che avevano appena vinto ma comunque una beffa, per la quale Irène protestò veementemente prima di arrendersi. L’importante, alla fine, era essere libere.
    Ciò non le impedì di esigere un passaggio a casa con la volante della polizia.
    Fu finalmente a casa, dopo aver sistemato la spesa e mangiato più carne di quanta ne avrebbe cucinata normalmente per una sera sola, che Irène dedicò cinque minuti del suo tempo al terzo e ultimo gratta e vinci in loro possesso. Con la stessa moneta che le aveva fatto vincere 50.000 dollari qualche ora prima, grattò la patina argentata, scoprendo la prima fila di numeri, poi la seconda, infine la terza. Controllò più e più volte il risultato, infine si alzò di botto dalla poltrona e andò a raggiungere Alphard al piano di sotto.
    Non c’è due senza tre.


    Caratteri (senza formattazione): 20.006
  15. .
    Non poté fare a meno di accorgersi del fatto che Alphard avesse notato la sua ‘lieve’ esitazione, ma non mostrò fastidio o peggio, vergogna, per aver inavvertitamente condiviso le sue insicurezze con lei. Anche il fatto che l’altra non avesse detto niente al riguardo consolidò la decisione presa. Incrociò il suo sguardo, indecifrabile, forse persa nei suoi pensieri o semplicemente guardando oltre lei per un attimo, dentro di lei. Poi la sua espressione cambiò, nel momento in cui voltò il capo per rivolgersi al biondo. I suoi occhi accennarono a un sorriso, che non ebbe il tempo di arrivare alle labbra.
    Sembrò soddisfatta. Se non altro, contava come ulteriore segno che entrambe erano abbastanza adulte da passare sopra momenti del genere ed andare avanti. Fece esattamente questo, apprestandosi a seguire il ragazzo che le condusse lungo il corridoio illuminato di rosso e di nero, colori che si riflettevano su ogni superficie presente, uniformando l’ambiente e le persone presenti. Ovvero solo loro. Tutte le porte erano numerate e, soprattutto, chiuse; il corridoio in sé era silenzioso, quasi in maniera spaventosa, grazie alle pareti insonorizzate. Risuonavano solo i loro passi, e i loro respiri. Irène cercò di non rallentare fino all’ultimo, come se temesse di rimanere indietro, da sola, in un luogo così angosciante, ma per sua fortuna ebbe a malapena il tempo di coltivare quel timore prima di raggiungere la loro destinazione.
    La stanza che le si aprì davanti era la numero 12, ed era, come poté notare poco dopo Alphard stessa, vuota. La clericale non sapeva se esserne contenta o se rimanerne, in qualche modo… delusa. Nel bene o nel male, aveva delle aspettative. Un crescendo di disagio e tensione come quello provato fino a qualche minuto prima, senza un punto culminante come si deve? La stessa cosa di un palloncino gonfiato quasi fino al limite e poi lasciato semplicemente sgonfiare, invece che scoppiato con uno spillo.
    Irène rimase all’ingresso, limitandosi per il momento a controllare la stanza da quel punto, e lasciando ad Alphard il resto dell’esplorazione. Con la coda dell’occhio vide il ragazzo che le aveva scortate allontanarsi, e per evitare di dare troppo nell’occhio fece giusto un passo avanti, chiudendosi dietro la porta con un sospiro. Scandagliò l’ambiente con la mente, acuendo la sua sensibilità agli artefatti magici o semplicemente agli incantesimi che potrebbero essere stati lanciati sulla stanza per qualunque motivo, per sicurezza.
    A quel punto arrivò, non senza un ritardo che l’aveva quasi sinceramente preoccupata, il commento insolente di Alphard. Irène riaprì gli occhi e corrugò la fronte. Poi incrociò le braccia al petto, badando a non stringere troppo la stoffa del cappotto con la mano per non riempirlo di grinze mentre trovava la giusta quantità di faccia tosta per risponderle.
    – Preferisco avere a che fare con qualcosa di familiare. –, rispose semplicemente, facendo spallucce e tenendo sotto controllo l’affluire di sangue al volto. Perché, almeno in teoria, conosceva meglio il corpo femminile che quello maschile. Anche da un punto di vista puramente scientifico, avrebbe avuto meno problemi a rapportarsi con una ragazza semi-nuda rispetto ad un uomo.
    No?
    Aspettò un altro commento pungente, che però sul momento non arrivò. Senza interrogarsi troppo sulla sua fortuna, per una volta, si convinse a fare qualche passo in avanti ed ispezionare più da vicino il luogo. Non aveva i sensi sviluppati di Alphard, ma non notando allarme nel suo volto, e soprattutto non ricevendo alcuno feedback da lei, arrivò a capire che il loro uomo non era stato lì prima di loro. Forse non era neanche dei paraggi.
    – Forse dovremmo… –, iniziò, salvo venire interrotta dalla licantropa e dalla sua, pareva, promessa solenne. L’episodio di prima doveva averla alterata più di quanto lei pensasse, per portarla a dire quelle parole. Irène sciolse le braccia, lasciando una mano poggiata al grembo e l’altra lenta lungo il fianco, e distogliendo lo sguardo annuì.
    – Sì, lo so. –, affermò, senza esitazione. Non era quello il suo problema. Sapeva che, ammesso che si fosse arrivati a quel punto, avrebbe potuto avere la meglio su una buona fetta dei presenti al locale anche da sola, figurarsi con Alphard al fianco. Era proprio il fatto che potesse effettivamente verificarsi qualcosa del genere a turbarla. Perché non avrebbe dovuto, ma era già successa. E a proposito…
    – Grazie, per prima, tra l’altro. –, aggiunse dopo qualche secondo, schiarendosi la voce. Non alzò il capo, che rimase fermo sulla moquette ai suoi piedi almeno finché non raggiunse lo schienale di uno dei divanetti, dove vi poggiò la mano libera.
    – Sia chiaro, è stata una reazione esagerata e avrebbe potuto crearci più problemi di quanti ne avrebbe risolti. Ma… è il pensiero che conta, immagino. –, continuò, sospirando e aggirando il divanetto, dopo aver lanciato un’occhiata veloce al gesto fatto dalla licantropa, che la invitava a sedersi. Storse il naso, per il motivo più ovvio.
    – Spero siano puliti. –, cambiò così discorso, per non indugiare troppo in quella dimostrazione di gratitudine che, per quanto dovuta, l’avrebbe messa a disagio andando per le lunghe. Senza contare i vasi di Pandora che avrebbe scoperchiato, tutti in una volta. Aggirò il divanetto, a quel punto, sedendosi a sua volta e lasciando abbastanza spazio per un’altra persona tra di loro. Portò le mani alle ginocchia, senza poggiarsi allo schienale o rilassandosi in alcun modo. Come al solito.
    – Se non verrà, come dici tu, forse dovremmo cercare da qualcun’altra parte. Non l’hai percepito, no? –, chiese conferma voltandosi parzialmente verso di lei, ma controllando la porta chiusa il resto del tempo.
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